Vanishing Memory Log

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[Estratto da Le città invisibili: ]

Ho letto "Le città invisibili" di Italo Calvino. L'ho masticata e digerita in due piacevoli sedute che mi hanno lasciata piena di immagini nuove, di posti impossibili che mi ricordano altritanti posti conosciuti. Marco Polo racconta l'estensione dei suoi domini al grande Khan, e nel dialogo ci sono idee che rimangono galleggianti, dense, nutritive finché si fissano in me. Ne lascio qui alcuni frammenti.

“La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno tu lavori come tagliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo”

“La memoria è ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere.”

“– Viaggi per rivivere il tuo passato? – era a questo punto la domanda del Kan, che poteva anche essere formulata così: – Viaggi per ritrovare il tuo futuro?
E la risposta di Marco: – L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.”

“A qualsiasi ora, alzando gli occhi tra le tubature, non è raro scorgere una o molte giovani donne, snelle, non alte di statura, che si crogiolano nelle vasche da bagno, che si inarcano sotto le docce sospese sul vuoto, che fanno abluzioni, o che s’asciugano, o che si profumano, o che si pettinano i lunghi capelli allo specchio. Nel sole brillano i fili d’acqua sventagliati dalle docce, i getti dei rubinetti, gli zampilli, gli schizzi, la schiuma delle spugne.”

“POLO:– … Forse questo giardino affaccia le sue terrazze solo sul lago della nostra mente…
KUBLAI:– … e per lontano che ci portino le nostre travagliate imprese di condottieri e di mercanti, entrambi custodiamo dentro di noi quest’ombra silenziosa, questa conversazione pausata, questa sera sempre eguale.
POLO:– A meno che non si dia l’ipotesi opposta: che quelli che s’arrabattano negli accampamenti e nei porti esistano solo perché li pensiamo noi due, chiusi tra queste siepi di bambù, immobili da sempre.
KUBLAI:– Che non esistano la fatica, gli urli, le piaghe, il puzzo, ma solo questa pianta d’azalea.
POLO:– Che i portatori, gli spaccapietre, gli spazzini, le cuoche che puliscono le interiora dei polli, le lavandaie chine sulla pietra, le madri di famiglia che rimestano il riso allattando i neonati, esistano solo perché noi li pensiamo.
KUBLAI:– A dire il vero, io non li penso mai.
POLO:– Allora non esistono.
KUBLAI:– Questa non mi pare una congettura che ci convenga. Senza di loro mai potremmo restare a dondolarci imbozzoliti nelle nostre amache.
POLO:– L’ipotesi è da escludere, allora. Dunque sarà vera l’altra: che ci siano loro e non noi.
KUBLAI:– Abbiamo dimostrato che se noi ci fossimo, non ci saremmo.”